Il sottotitolo di questo articolo potrebbe essere “Può uno struzzo diventare un’ostica?”. Ma cosa c’entrano le ostriche con gli struzzi? Cosa c’entra tutto ciò con la teoria e prassi della traduzione? E, soprattutto, perché Umberto Eco, uno dei massimi intellettuali italiani del Novecento, si è occupato di molluschi e pennuti?
Con il nostro breve l’articolo “Come dire (quasi) la stessa cosa” apparso sul nostro blog nell’estate del 2017 abbiamo avuto l’onore di presentare brevemente l’opera di ricerca sul tema della traduzione dell’autore de Il nome della rosa recentemente scomparso. Con Dire quasi la stessa cosa (2003) il filologo propone un’ampia selezione dei propri saggi affrontando nello specifico alcuni nodi e problemi teorici e pratici dei processi di traduzione letteraria.
Per chi volesse saperne di più (o per chi a questo punto vuole “cacciare la testa dalla sabbia”) cogliamo oggi l’occasione per approfondire l’argomento con un succoso esempio pratico tratto proprio dal mondo animale pubblicando integralmente la trascrizione dei uno dei suoi più brillanti interventi sul tema della “pratica della traduzione”. Buona lettura.
Antonio Salvati
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Traduzione: un problema di pragmatica di Umberto Eco
L’adeguatezza di una traduzione è materia di negoziazione e negoziare vuole dire lavorare sulla superficie letterale di un testo salvandone il senso profondo. […]
Se si deve avanzare una ipotesi sul senso profondo di un testo, allora prima di tradurre occorre interpretare, con tutte le alee che qualsiasi atto interpretativo comporta. Negoziare perdite e guadagni vuole dire decidere quale sia il senso profondo che si vuole salvare anche a scapito del senso letterale”. […]
Se in un romanzo un personaggio sciocco fa un gioco di parole insulso intraducibile, una volta deciso che il senso profondo del testo è mostrare quanto il personaggio sia insulso, allora si può cambiare gioco di parole pur di renderne evidente l’insulsaggine. Vediamo la traduzione italiana di Alice nei paesi dei numeri di Feff Noon (Frassinelli 1999):
«Oh, mi sento così ostracizzato!».
«Ti senti ridotto a un’ostrica?» chiese Alice.
«Per niente!» gridò Ramshackle, «Sono i serpenti ad aver cacciato la testa nella sabbia, non io!».
“Not at all!” cried Ramshackle. “It’s the Serpents who have buried their heads in the sand, not me.”
Oh, I feel so ostracized!”
“You feel so ostrich-sized?” asked Alice.
“Not at all!” cried Ramshackle. “It’s the Serpents who have buried their heads in the sand, not me.”
Chiarito che in quel romanzo i serpenti erano già stati menzionati, e mettevano la testa nella sabbia, perché il personaggio, per negare di essere un’ostrica, lascia capire che le ostriche cacciano la testa nella sabbia?
Ora, per errata che una traduzione sia, è possibile riconoscere il testo che essa pretende tradurre; perché leggendo un testo il lettore cerca di immaginarsi un mondo, e non solo nel mondo in cui viviamo, ma presumibilmente anche in quello di quella storia, le ostriche non nascondono la testa nella sabbia. Anche senza controllare sull’originale inglese, viene subito in mente che un animale che caccia la testa nella sabbia è lo struzzo, e che in inglese “struzzo” si dice ostrich. Evidentemente il testo originale, con la parola ostracism, evocava degli struzzi e non delle ostriche, da cui la ragionevolezza della risposta, e cioè “io non sono uno struzzo e quindi non metto la testa nella sabbia”.
O la traduttrice ha commesso una svista e ha tradotto ostrich con ostrica, oppure, visto che in italiano non vi sono rapporti paronomastici tra ostracismo e struzzo, ha cercato di mantenere il gioco di parole sostituendo l’ostrica allo struzzo; ma in entrambi i casi non si è resa conto che la sua soluzione non quadrava col resto del dialogo.
Per mantenere il gioco di parole e rendere però sensata la risposta dell’interlocutore, io avrei reso così questo scambio dialogico:
«Oh, ma il vostro è ostruzionismo!».
«Ti senti ridotto a uno struzzo?» chiese Alice.
«Per niente!» gridò Ramshackle, «Sono i serpenti ad aver cacciato la testa nella sabbia, non io! »